16 Mag Approfondimenti stupefacenti: Incontri troppo ravvicinati? intervista a Vincenzo Scalia
Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Vincenzo Scalia, sociologo e ricercatore, insegna sociologia della devianza all’Università di Firenze. Si occupa di carceri, criminalità organizzata e abusi di polizia e ha pubblicato di recente il libro Incontri troppo ravvicinati? Polizia, abusi e populismo nell’Italia contemporanea per Manifesto Libri.
In questo saggio recentissimo Scalia affronta il contesto storico sociale e il modus operandi delle forze dell’ordine tra isolamento culturale e necessità di assecondare le aspettative della politica e dell’opinione pubblica (policing populista) in una società multipla e frammentata che persegue un giustizialismo securitario contro le classi sociali considerate pericolose (migranti, attivisti, sex worker, popolo della notte, ecc.); a più di vent’anni dal G8 di Genova che ha messo definitivamente in crisi il rapporto tra cittadini e istituzioni, le forze dell’ordine italiane, una polizia di tipo continentale, oscillano tra canteen culture e ideologie populiste, tra rispetto delle libertà individuali e discrezionalità nell’agire che in alcuni casi estremi ha portato alla morte di Aldrovandi e Magherini. Altro tema analizzato nel libro quello relativo alla gestione degli ordini di confinamento durante la pandemia del 22 che all’opposto ha portato il cittadino ad anticipare e sovrapporsi alla polizia nel perseguimento della propria idea di sicurezza
Come dicevamo le forze di polizia italiane rispondono a un modello di struttura di tipo continentale quindi un’organizzazione centralizzata con i prefetti a far da terminale alla politica del governo e con la presenza dell’elemento militare rappresentato dai Carabinieri; alla luce di questo si può ancora rendere democratica la polizia italiana? Il Defund the Police sul modello americano (disinvestire denaro dai bilanci della polizia locale e statale e reinvestirlo in programmi di servizio sociale) potrebbe essere una delle soluzioni?
La polizia democratica può sembrare in un certo senso un ossimoro: da un lato la polizia incarna e simboleggia il potere dello stato che deve far rispettare le leggi e metterle in atto, dall’altro per farlo si deve garantire un’autorevolezza o consenso sociale che è sempre difficile da raggiungere perché la società è divisa, c’è frammentazione sociale ed è un dato di fatto che la risorsa coercitiva prevalga a scapito di quella democratica.
La contraddizione tra democraticità e autoritarismo fa sì che qualche problema con i corpi di polizia ci siano sempre stati; ad esempio sul Defund the Police mi muoverei con cautela: negli Usa ha senso sostenerlo perché tutte le riforme stornate dal welfare sono state trasferite fin dall’inizio alla sfera giudiziaria penale (stato penale al posto dello stato caritatevole) quindi un’inversione di rotta è auspicabile proprio per la scarsità di welfare del sistema americano; è necessario togliere risorse, strumenti e funzioni allo stato penale per riportarle sul sociale perché questioni come la violenza razziale, di genere, omofobica non possono essere governate con mezzi di coercizione, la polizia non deve occuparsi di rapporti sociali che vanno invece costruiti e impostati socialmente. Attenzione però che sottraendo fondi alla polizia si apre la strada alle varie polizie private, ronde e gruppetti paramilitari che in questo momento storico in Italia, con questo particolare governo fanno parecchio paura; il defunding va applicato quando i rapporti di forza nella società sono più favorevoli ai movimenti che hanno approcci più inclusivi e trasformativi della società.
Nel libro dedichi un capitolo a Federico Aldrovandi (2005), uno dei tragici casi in cui si palesa la discrepanza tra diritti individuali, controllo democratico degli apparati dello Stato e cultura di polizia; perché ritieni che questo sia uno spartiacque nella percezione degli abusi e che quindi la polizia si rappresenta come una vera e propria forza dell’ordine?
Il caso Aldrovandi investe l’opinione pubblica in relazione alla percezione dell’incolumità individuale; nella narrazione securitaria dominante la società viene vista come un luogo pericoloso, con senzatetto o migranti pronti ad aggredirci quando invece noi sappiamo che le vere aggressioni avvengono maggiormente nel contesto familiare (82% violenza di genere e 60% pedofilia) e quindi in luoghi tradizionalmente sicuri. Con Aldrovandi il pericolo è addirittura rappresentato da quelli che dovrebbero evitarcelo che nel caso in questione interpretano (discrezionalità dell’agire) un momento di rilassamento di un cittadino dalla realtà costituita come un reato o peggio un pericolo di ordine pubblico e una deviazione dalle regole di vita. Noi che volgiamo lo sguardo preoccupato al nemico esterno ci troviamo invece minacciati dall’elemento interno (che tra l’altro finanziamo come contribuenti) che se interpreta male un nostro atteggiamento può portarci anche alla morte o privarci di un figlio o di un amico. Il caso Aldrovandi ci ha detto questo: non siamo sicuri nemmeno da quelli che ci dovrebbero rassicurare.
Nel caso Magherini del 2014 è ancora più esplicitato questo atteggiamento: mancanza di comunicazione, giustificazione delle proprie azioni, approccio militaresco, alterizzazione e tipizzazione della vittima
Con la cultura di polizia gli agenti danno un senso al loro lavoro (cosa vuol dire esser poliziotti per loro), si danno un’identità di gruppo, imparano dai più anziani e dall’esperienza; la cultura orienta il sapere cioè il modo di comportarsi in situazioni specifiche che non è però originato da una formazione articolata e nemmeno da un dettato di legge ma da uno storytelling o ancora peggio da discrezionalità. Il giovane carabiniere che si trova davanti una persona con un attacco di panico e non sa come comportarsi perché non l’hanno formato in tal senso, adotterà un atteggiamento che ha interiorizzato attraverso il proprio sapere che si potrà rivelare inadeguato e repressivo come nel caso di Riccardo Magherini. Purtroppo non esistono al momento corsi di formazione che permettano una visione larga sulla società contemporanea che è complessa e multiculturale e composta da figure sociali plurime con cui dobbiamo convivere: la diversità non deve essere vista come minaccia. Mancano anche dei protocolli di coordinamento che in casi simili non prevedano l’intervento di forze di polizia ma unità di strada o personale formato.
Nel capitolo riservato al periodo della pandemia in Italia ti soffermi sul passaggio dall’offerta di polizia alla domanda di polizia, puoi chiarire meglio il concetto?
In Italia a causa della frammentazione sociale c’è una cultura patibolare diffusa che crea un cortocircuito tra l’inerzia al cambiamento da parte della polizia e la richiesta di sicurezza voluto da ampie frange della popolazione. Il periodo della pandemia e il relativo lockdown è un caso paradigmatico: nonostante fosse la più grande sospensione dei diritti civili dal dopoguerra ad oggi non ci sono state proteste, chi lo faceva veniva tacitato, è stata accettata l’idea di rimanere a casa quando è nella natura dell’uomo muoversi e spostarsi. Ci si è spinti fino alla delazione di massa, a fotografare situazioni e a denunciare casi di sospette violazioni, in quei tempi si faceva comunità in questa maniera; un’autentica community intelligence (spionaggio di massa) e non a caso questa fase del lockdown è stata gestita da un governo manettaro. Tutto questo però non ha creato nuove deleghe di polizia partecipata. Il periodo del Covid ha esemplificato questa tendenza al securitarismo che ormai nella politica italiana purtroppo è egemone.
Decentramento, demilitarizzazione, identificazione dei numeri di matricola e formazione degli agenti, istituzione di una commissione indipendente: sono questi i temi che un movimento riformatorio deve affrontare per invertire questa tendenza?
Per quanto riguarda l’identificazione degli agenti con i numeri di matricola serve a responsabilizzare i singoli individui e a non criminalizzare l’intero corpo ma solo quelli che hanno commesso un reato;
la formazione come dicevamo prima è importante ed esistono piccoli esempi virtuosi. L’istituzione di una commissione indipendente che fa inchiesta tramite la raccolta di denunce e segnalazioni di abusi, che informa la polizia come gli unici responsabili davanti al pubblico per il rispetto della legge è quello che ci interessa, nella tutela dei diritti fondamentali, nella presunzione di innocenza e nella non discriminazione; un tentativo di de-escalation che bisogna assolutamente portare avanti.